A volte ci nascondiamo dietro la trincea di frasi come “racconto la verità“, “il mio dovere è raccontare la verità”: espressioni spesso usate da chi opera nel giornalismo per difendere a oltranza la scelta di parole, immagini, stili di narrazione.
E se pensassimo alla “verità” in altro modo? Se la considerassimo definita da punti di vista e sensibilità diverse, soggettive, legate alla storia e ai dolori di ognuno di noi, di chi legge un pezzo o ascolta o vede un servizio alla radio o in tv?
Se pensassimo alla “obiettiva” difesa di “verità” come frequente e comoda scusa per restare nella nostra fortezza di orgoglio e convinzioni?
Se decidessimo di abbandonare quella fortezza per esplorare nuovi scenari? Se lo facessimo proprio in nome di una “verità” pronta ad accogliere le altrui sensibilità?
Beh… se pensassimo questo, forse sarebbe più facile spogliarsi dei confortevoli abiti del “ruolo”, delle competenze, delle marmoree certezze
Verità giornalistica: proviamo ad abbattere la fortezza
Se pensassimo a tutto ciò, forse potremmo abbattere quella fortezza per scoprire i campi fertili dell’ascolto più difficile, più autentico. Tutto questo per un giornalismo più empatico, più pronto a mettersi nei panni delle persone. Tutto per l’amore prioritario della “verità” aperta alle tante “verità” possibili. Per abbattere “muri” e aprire “finestre” sulle diverse umanità attorno a noi.
Riflessioni, queste, che ben si sposano con la ricerca della “verità” nel senso di una definita cornice metodologica. Una cornice fondata sull’ascolto di diversi punti di vista, sul sentire “più campane”, sulla raccolta di dati statistici, sul dare spazio a diverse chiavi di lettura della realtà offerte dalle persone intervistate per un determinato tema/fatto/accadimento.
Un metodo di indagine però legato in modo indissolubile al momento soggettivo del lavoro giornalistico. Una “cornice” sempre associata a un “quadro” di scelte per la selezione più o meno consapevole di parole, fotografie, filmati, temi da raccontare, “tono di voce” da adottare: campi di azione che, sì, vengono perimetrati da regole deontologiche e norme giuridiche, ma che in pratica sono sempre plasmati da sensibilità e valori di chi scrive un pezzo o firma un servizio radiotelevisivo.
Proprio la capacità, l’onestà, l’umiltà di riconoscere tale campo si legano alla necessità di guardare alle “verità” diverse dalle nostre. Per capire, ad esempio, se una determinata parola o una certa foto suscitano troppo dolore, rabbia, odio, più che favorire la comprensione di un tema, di una iniziativa, di un fatto.
Su questa dimensione “soggettiva” di derivazione culturale, storica, filosofica, antropologica si fonda il bisogno di riformulare la “verità” secondo il vocabolario del confronto e dell’ascolto per un “viaggio” alla scoperta delle ragioni e del sentire altrui. Un viaggio alla scoperta di nuovi “territori” di senso per riflettere sui nostri “attrezzi” della narrazione.
- L’ascolto oltre i muri della “verità” giornalistica - Gennaio 11, 2023