La storia del turismo è stata scritta al contrario. Partendo dal fondo. E non a caso.
Negli anni ’60 del secolo scorso ci si rese conto che gli spostamenti temporanei delle persone da un luogo all’altro, per varie ragioni legate a cultura, svago, sport, religione, avevano – tra le altre cose – un impatto economico non trascurabile. Così nelle sedi deputate si cominciò a tracciare la fisionomia di questo interessante fenomeno, guardando indietro e cercando delle definizioni in cui inquadrare tutto quello che era successo fino a quel momento.
Intanto, il panorama dell’offerta cominciava ad affollarsi. Certo, nessuno all’epoca avrebbe potuto immaginare la corsa sfrenata che questo settore avrebbe preso né il modo in cui sarebbe cambiato dopo appena 30 anni, quando il vocabolario dei viaggiatori si sarebbe arricchito di parole ormai diventate indelebili: internet, low cost, booking, last minute e via dicendo.
Sì, è successo ieri – negli anni ’90 – e ha accelerato la corsa tanto che, nel giro di mezzo secolo dalla sua nascita, questo fenomeno è diventato globale e il turismo è sceso progressivamente nella scala dei bisogni, collocandosi fra i primari.

Emulare non basta: bisogna reiterare, metabolizzare perché la percezione possa mutare.


Quando la storia del turismo ha cominciato a tratteggiare il fenomeno, lo ha fatto partendo dai protagonisti, cioè dai viaggiatori. Anzi dai turisti: è analizzando i loro comportamenti che si è arrivati a dare una definizione di turismo. Quei primi protagonisti erano un’élite economica, prima di tutto sociale e culturale di conseguenza. Gli altri guardavano quei precursori degli attuali influencers e sognavano di identificarsi, di poter accedere a quel privilegio di spostarsi per riposarsi prima di tutto, per curare il corpo e raggiungere un più alto grado di benessere fisico e anche culturale.
Non appena le condizioni lo hanno permesso, il boom economico degli anni ’60, per esempio, o l’incremento dei mezzi di trasporto, la classe media – insomma la gente “comune” – ha cominciato a emulare l’élite. Ma come spesso accade, ci vogliono decenni di evoluzione sociale e mentale perché cambi una certa mentalità.
E allora mi chiedo se non sia proprio questo a farci sognare, a farci invidiare – anche in senso buono – chi viaggia. A portarci subito a dire “che bello!” quando qualcuno sta partendo verso un luogo che nemmeno conosciamo. Esclamare “che bello” senza fermarsi a riflettere che per fare quel viaggio basta un fine settimana, magari pochi euro di un volo low cost. Per capire insomma che non c’è nulla di impossibile, che potremmo farlo anche noi. O, viceversa, che di bello c’è certamente l’idea, la percezione, l’esperienza. Ma che per farla bisogna essere pronti a uscire dal nostro consueto per immergerci in quello di qualcun altro.

Perché viaggiare è diventata una necessità?


Questi sono pensieri liberi, ve lo rammento. Niente analisi socio antropologiche, solo osservazioni. Da un punto di vista privilegiato, lo ammetto: viaggio tantissimo per varie ragioni e soprattutto lo faccio spesso in maniera professionale occupandomi di altri viaggiatori, registrando le loro reazioni. Proprio loro mi hanno insegnato tantissimo, fornendomi un bagaglio eccezionale per prevenire le richieste e progettare percorsi adeguati. Non importa il processo mentale, la difficoltà o la facilità di accedere a un luogo, di vivere la stessa esperienza della persona che sta per partire e a cui diciamo “che bello!”. In quel momento invidiamo il sogno, l’identificazione, la vocazione ad ammirare l’influencer e la sua esperienza che potrebbe diventare anche la nostra senza sforzo.

“Beata te che viaggi sempre”, quante volte me lo sento dire?


Ma viaggiare non è facile perché richiede impegno. Dal punto di vista economico e di tempo. Significa investire aspettative e cercare di non deludere. Significa coronare un sogno, spesso – appunto – indotto. Nella narrazione dei luoghi e nella vendita dei viaggi manca spesso un’informazione fondamentale: per viaggiare bisogna uscire dalla propria zona di conforto. Bisogna essere pronti a guardare senza giudicare, ad assaggiare senza riconoscere, a lasciare a casa la propria valigia di pregiudizi e soprattutto di abitudini.
Un viaggio si compone di elementi materiali e immateriali. Proprio su questi si è costruito il linguaggio della comunicazione che si è concentrato sull’esperienza, sui colori, sulle sensazioni. Su tutto ciò che accende il nostro immaginario. Certo, è il compito della comunicazione, del marketing. Ma se provassimo a fare un passo avanti verso il #turismocostruttivo e provassimo a essere un po’ più realistici? Avremmo forse meno spot patinati ma certamente più viaggiatori consapevoli e soddisfatti.

Carla Diamanti

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