C’è un vecchio film – The Paper (1994), una brillante commedia di Ron Howard, dove uno spumeggiante Michael Keaton nei panni di un caporedattore di uno scalcinato quotidiano locale di New York, è pronto a rischiare ogni cosa pur di dare la notizia giusta. Spende un’intera giornata a cercare la fonte che possa confermare la sua storia. Rischia la carriera, è disposto a far fallire il giornale (ferma le rotative), si perde persino la nascita del suo primo figlio, pur di scrivere quella che considera la notizia corretta da sbattere in prima pagina. 

È la storia di un vecchio giornalismo, quello che era solo su carta, quando ancora non c’erano i social e Internet emetteva i primi vagiti. In questo lockdown mi è tornato spesso in mente Henry Hackett (è il personaggio interpretato da Keaton): pensate lui spende un intero giorno, per scrivere e dare una notizia. Oggi ne produciamo migliaia in pochi minuti, se non secondi. E non è solo una questione tecnologica.

Henry potrebbe scegliere la strada più facile: pubblicare una notizia che ritiene sbagliata. Attenzione sbagliata, non falsa. Perché se lui non indagasse, rinunciasse ad approfondire, potrebbe tranquillamente pubblicare quello che possiede, pressato com’è dal dover chiudere una pagina e andare in stampa. E non è vero che oggi la tecnologia ci ha tolto il problema: perché se si vuole essere posizionati bene su Google, non si può aspettare. Potrebbe pubblicare, potrebbe dire che a uccidere due colletti bianchi di Wall Street sono i due ragazzi neri fermati dalla polizia e arrestati. 

Ma intuisce e poi scopre che questa storia deve essere approfondita e ha ragione, perché ha deciso che deve scrivere la notizia giusta. Ecco oggi, in questa prima infodemia della storia, non solo rispetto alle fake news mi chiedo quante siano le notizie davvero giuste. Quante volte in questo travolgente matrix di informazioni e notizie che corrono a velocità quantica, abbiamo provato, almeno per un minuto a fare come Hackett. Perché si, è purtroppo vero che ci sono giornalisti che non fanno bene il loro mestiere, che confermano i peggiori stereotipi con cui viene additata la categoria. Però, come scrive il Direttore di Polis Charlie Beckett, ci sono milioni di reporter che ogni giorno per raccontarci il Covid stanno rischiando la loro salute, rinunciando a vedere i loro famigliari, figli, pur di scrivere una storia. Come Hackett, anche loro vogliono scrivere la notizia giusta.

Tutti reporter, tutti editori

E oggi noi siamo tutti reporter, tutti editori. E ovviamente non possiamo spendere la nostra giornata a verificare quello che leggiamo. Però possiamo chiederci se stiamo condividendo non la notizia vera, bensì quella giusta. Ecco perché dopo tante analisi io credo che le fake news non siano un problema socio-culturale-educativo di stampo vittoriano, ma squisitamente giornalistico. E allora come giornalisti dovremmo provare a trovare un modo e un luogo dove provare a spiegare che cos’è non la verità – che è meglio lasciare alla metafisica – ma una notizia giusta. E forse chissà che non ne nasca tanto un rapporto di fiducia – altro concetto fuorviante dice sempre Beckett quando si parla di fake news – ma un modello di comunità, di collaborazione tra chi legge e chi scrive. E che il buon vecchio giornalismo di una volta, fatto di suole consumate può ancora dare risposte, tanto più valide se accompagnato a un consapevole uso della tecnologia e dell’intelligenza artificiale come scrive Francesco Marconi. 

E poi ci siamo noi, i lettori. Non siamo figure marginali e passive. Non lo siamo mai stati e tanto meno possiamo esserlo oggi. Siamo quelli che valorizzano e riconoscono il lavoro di Henry. Anche se non conferma le nostre idee e la nostra visione del mondo. E sì, è una gran bella responsabilità.

Raffaele Castagno
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